Più alto dell'everest?



 

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Le montagne della Luna

 

 

Apollo 12: un esordio alpinistico

 

Il 19 novembre 1969, in un certo senso, è la data di nascita dell'alpinismo extraterrestre. Non si trattò, ad essere sinceri, dell'ascensione di una montagna vera e propria, ma solo di un modesto cratere lunare, dentro il quale era andata a posarsi nell'aprile del 1967 la sonda americana Survejor 3. Incaricati del recupero i due astronauti dell'Apollo 12 (fig. 1), Charles Conrad e Alan Bean, il terzo e quarto uomo a toccare la superficie del nostro satellite.

 

Fig. 1. L'astronauta Alan Bean al lavoro sulla sonda automatica Survejor 3. Sullo sfondo, il LEM dell'Apollo 12 atterrato, con incredibile precisione, a meno di 200 m dalla sonda (cortesia NASA).

 

Fu questo uno degli scopi principali della missione, partita da Cape Kennedy il 14 novembre 1969 con destinazione Oceano delle Tempeste, in una zona pianeggiante e povera di strutture superficiali, a circa 80 km a sud sud ovest del cratere Landserg. L'atterraggio, avvenuto con grande precisione, si verificò a soli 185 metri dal Survejor 3. La serie delle sette sonde Survejor, lanciate dal 30 maggio 1966 al 17 gennaio 1968, aveva lo scopo di preparare il terreno all'arrivo degli astronauti, atterrando dolcemente in varie regioni lunari e saggiando la consistenza del suolo, oltre a trasmettere migliaia di fotografie della superficie. Cinque di questi veicoli riuscirono a toccare il suolo lunare. Oltre al Survejor 3, anche il Survejor 5 si posò in una zona vicina al luogo di atterraggio di un equipaggio umano, proprio quello dell'Apollo 11, fra i crateri Moltke e Sabine. Curiosamente, l'ultimo della serie, il Survejor 7, andò a posarsi su una montagna alta quasi come il Monte Rosa, 4572 m sul livello medio lunare.

Il recupero della sonda da parte di Conrad e Bean avvenne felicemente, ma non senza difficoltà. La pendenza delle pareti del piccolo cratere (200 m di diametro) in cui era andato a posarsi il Survejor era modesta, all'incirca il 12%, tuttavia la presenza della tuta lunare ostacolò non poco i due astronauti. Anche la ridotta gravità lunare, solo 1/6 di quella terrestre, anziché essere d'aiuto, pose dei problemi, soprattutto di equilibrio. Così, Conrad fu il primo uomo a cadere sulla Luna. Nelle missioni successive, con l'allungarsi dei tempi di permanenza del modulo lunare, i capitomboli divennero una costante, con effetti spesso comicissimi. Ma in quel momento si preferì non correre rischi: il recupero venne completato utilizzando una corda da alpinismo per l'assicurazione. Naturalmente la sonda non venne rimossa completamente, ma furono recuperate soltanto alcune parti, come la telecamera, dei cavi e dei tubi di alluminio, soprattutto per verificarne lo stato dopo due anni e mezzo di permanenza nell’ostile ambiente lunare. Incredibilmente, fu trovato uno Streptococcus, sopravvissuto sia alla sterilizzazione avvenuta a terra sia alla massiccia dose di raggi cosmici e ultravioletti che piovono copiosamente sulla Luna, non protetta da alcuno scudo atmosferico.

 

 

Apollo 14, ancora una scalata

 

Un secondo episodio di alpinismo lunare avvenne già con la missione successiva, quella dell’Apollo 14 (l'Apollo 13, come è noto, non raggiunse la Luna a causa dell'esplosione di un serbatoio di ossigeno che portò al primo naufragio spaziale della storia, per fortuna senza vittime). Il 5 febbraio 1971 il modulo lunare dell'Apollo 14 calò nel cratere Fra Mauro, un circo semicancellato dall'erosione di 80 km di diametro, nel punto previsto per l'atterraggio dell'Apollo 13 e a soli 250 km a sud ovest della zona visitata nella missione precedente (fig. 2).

 

Fig. 2. Il cratere Fra Mauro, in basso, dove scese l’Apollo 14. In alto, a nord del grande cratere Copernico, i Carpazi, una delle più importanti catene lunari (foto dell’autore).

 

Il programma prevedeva l'ascensione di un piccolo cratere chiamato Cono, di circa 120 metri di altezza. Ma una volta di più si fecero sentire i problemi dovuti all'impaccio delle tute e alla gravità ridotta. I due astronauti Alan Shepard e Edgar Mitchell dovettero interrompere la scalata quando la loro frequenza cardiaca raggiunse le 150 pulsazioni, ritenute eccessive in quelle condizioni dal medico della NASA a Houston.

 

 

Apollo 15, in montagna!

 

Spunti di interesse alpinistico ci furono anche nella missione dell'Apollo 15. David Scott e James Irvin atterrarono, tra il luglio e l'agosto del 1971, presso i Monti Hadley, nella catena degli Appennini lunari (fig. 3), dove si raggiungono i 5400 m con il Mons Huygens.

 

Fig. 3. Gli Appennini, la più imponente catena montuosa lunare, in una foto dell’autore. A destra, i Monti Balcani orlano il M. Serenitatis.  In alto, con l’asterisco, è segnata la zona dove sbarcò l'Apollo 15, alla base del Monte Hadley Delta.

 

 

La desolata bellezza del paesaggio fu ben espressa dalle parole di Irvin: “Per apprezzare la bellezza della Luna, la grandiosità dei suoi picchi e delle sue valli, bisogna amare la montagna. Altri descriveranno la Luna come un corpo spoglio e desolato e dal punto di vista tecnico la ragione sarà dalla loro parte, poiché sulla superficie lunare non c'è né acqua né aria e il silenzio è assoluto. Tuttavia la Luna ha una sua attrattiva, che può essere capita da chi, come me, ama la montagna... Quando scesi la scaletta del modulo lunare, rimasi senza fiato davanti alla visione degli Appennini, che circondavano da ogni parte la base di Hadley. Sembravano così vicini e così alti! Ma la sorpresa vera fu di constatare che le montagne erano tutt'altro che grigie o nerastre come mi sarei aspettato e che avevano invece un colore dorato, dovuto ai riflessi del sole mattutino che faceva capolino fra i pendii” (1).

 

 

Galileo, 400 anni fa

 

Echeggia nelle parole riportate una meraviglia e uno spirito di contemplazione non inferiori a quelli provati da Galileo quando, alla fine del 1609, da Padova, osservò la Luna con il suo telescopio (fig. 4), trovandola “… disuguale, scabra, ripiena di cavità e di sporgenze, non altrimenti che la faccia stessa della Terra, la quale si differenzia qua per catene di monti, là per profondità di valli” (2). Galileo non aveva avuto dubbi nel riconoscere un paesaggio molto simile a quello terrestre, soprattutto per quanto riguarda la presenza di alte catene montuose. Qualsiasi possessore di un piccolo telescopio sa che, quando la Luna è intorno al primo o all'ultimo quarto, nella parte oscura si vedono dei punti di luce più o meno allargati, talvolta delle vere e proprie macchie, che non sono altro che le cime delle montagne illuminate in pieno dal Sole, mentre il fondo delle valli è ancora (o già) in ombra. Un effetto molto simile a quello di cui siamo testimoni sulla Terra quando “… prima del sorger del Sole, le più alte cime dei monti sono illuminate dai raggi solari, mentre l’ombra occupa tuttora le pianure...” (3).

 

Fig. 4. Disegni della Luna eseguiti da Galileo (dall’autografo del Sidereus nuncius).

 

Già lo stesso Galileo si era accorto della grande altezza delle catene lunari. E, per primo, aveva proposto un metodo molto ingegnoso, basato sulla lunghezza delle ombre, per misurarne l'elevazione (4). Da queste prime misure, anche se non molto precise, l’astronomo era giunto ad affermare che le montagne lunari erano assai più alte di quelle terrestri, non solo in senso relativo (paragonandole cioè ai rispettivi diametri, 3476 km quello lunare e 12 756 quello terrestre) ma anche in senso assoluto. Mentre la prima affermazione è da considerarsi ancora oggi del tutto corretta, la seconda deve essere un po' ridimensionata. Galileo aveva trovato montagne alte circa quattro miglia italiane, cioè quasi 6000 metri, mentre a quel tempo non si pensava che esistessero sul nostro pianeta montagne più alte di circa un miglio (1460 m ca.). Insomma, pare che nel Seicento si sapessero misurare meglio le montagne sulla Luna che sulla Terra!

 

 

La natura delle montagne lunari

 

Alcune delle montagne lunari sono isolate, ma la maggior parte è disposta in catene montuose simili a quelle terrestri. Quando, intorno al 1650, i gesuiti Grimaldi e Riccioli elaborarono la nomenclatura lunare, in uso ancor oggi, assegnarono, con poca fantasia, alle catene lunari gli stessi nomi di quelle terrestri: Alpi, Appennini, Giura, Caucaso, Urali, Balcani, Carpazi, Pirenei.

Queste montagne, però, hanno un’origine del tutto diversa da quelle della Terra. Mentre sul nostro pianeta il sollevamento delle catene montuose avviene come conseguenza dello spostamento e dello “scontro” fra le zolle continentali, sul suo satellite ha avuto luogo a causa dell'impatto di corpi rocciosi aventi diametri da pochi metri a qualche decina di km, che hanno bombardato la Luna nei primi tempi della sua evoluzione geologica, craterizzandola pesantemente.

Tutti i crateri visibili sulla superficie presentano dei bordi rialzati. Lo stesso effetto, amplificato, si è avuto con la caduta di asteroidi più grandi, che hanno formato i veri e propri bacini che poi, invasi dalla lava fuoriuscita dall’interno, sono andati a costituire i famosi “mari” lunari, quelle macchie di colore scuro ben visibili anche a occhio nudo.

L'esempio più eclatante di questo processo si può vedere nel Mare Imbrium dove ovviamente, nonostante il nome, non piove mai: formato da un impatto avvenuto con un asteroide di almeno 100 km di diametro 3,9 miliardi di anni fa, il M. Imbrium appare orlato, come si vede in figura 5, da una serie impressionante di catene montuose, formatesi rapidissimamente, forse in meno di un'ora dalla caduta: le Alpi (massima elevazione Monte Bianco, 3600 m, fig. 6) e il Giura a nord, il Caucaso (che culmina a 6000 m, fig. 6), gli Appennini a sud ovest e i Carpazi (fig. 2) a sud. Altre cospicue catene circondano bacini lunari: il M. Serenitatis è orlato dai Monti Balcani, il Mare Nectaris dai Pirenei e il Mare Orientale, a metà fra faccia visibile e faccia nascosta, dai Montes Rook e Cordillera.

 

Fig. 5. Cartina della Luna realizzata dall’autore osservando con un piccolo telescopio.

 

 

Fig. 6. Le Alpi Lunari e

il Caucaso in una foto dell’autore.

 

 

 

 

Quale composizione hanno le montagne lunari? Una parziale risposta a questa domanda è stata data soprattutto con la già citata missione Apollo 15. Scott e Irvin, spingendosi, grazie all'impiego della Moon Rover, il famoso fuoristrada lunare (fig. 7), fino alla base degli Appennini di Hadley (alti in quel punto circa 3-4000 m), hanno potuto raccogliere non solo rocce tipiche dei mari lunari, di tipo basaltico, ma anche rocce rotolate sul fondo del Mare Imbrium dalle cime dei monti, nonché campioni presi alla base stessa delle montagne. Queste rocce sono prevalentemente di tipo anortositico (5), composte cioè fondamentalmente da plagioclasio calcico, di natura ignea e più antiche del basalto dei mari. Sono stati trovati anche diversi tipi di brecce (rocce costituite da frammenti di altre rocce), che rappresentano probabilmente il risultato della frammentazione, da parte del bombardamento meteoritico, del substrato montuoso preesistente alla formazione del bacino Imbrium.

 

Fig. 7. Stupenda inquadratura della zona dello sbarco dell’Apollo 15, con il LEM e la Moon Rover. Sullo sfondo, il Monte Hadley Delta.

 

Tutti i tipi di rocce lunari, comunque, sia che provengano dai mari, che dalle montagne o dagli altopiani (chiamati terrae), sono essenzialmente di tipo eruttivo, simili alle rocce vulcaniche terrestri e con una densità molto inferiore a quella di classiche rocce granitiche o calcaree. Alla luce di questo fatto, non è agevole immaginare il tipo di resistenza opponibile a una scalata in piena regola, quali problemi, del tutto nuovi, si porrebbero ad una vera cordata lunare. L'alpinismo fuori della Terra, a parte i modesti episodi che abbiamo raccontato, deve ancora iniziare, in senso stretto. Certamente, per coloro che sul nostro pianeta hanno già fatto tutto quanto d'importante c'era da fare, si apre, appena fuori della porta di casa, un panorama assai invitante, con migliaia di montagne ancora “vergini”. Non è dato sapere quando comincerà un vero alpinismo lunare, anche se prima o poi, questo è certo, comincerà, così com'è sicuro che ben altri saranno i problemi di “materiale” da affrontare.

 

 

Le montagne degli altri mondi

 

Ma la Luna sarà solo l'inizio, per la smisurata e a volte insana passione esplorativa e alpinistica umana. Anche se solo quattro altri pianeti presentano delle croste solide, Mercurio, Venere, Marte e Plutone, potremo avere, nel sistema solare, l’equivalente delle “sette sorelle”, ovvero le montagne più alte dei sette continenti, da scalare. Infatti attorno a Giove, Saturno, Urano e Nettuno, i pianeti gassosi, vi sono decine di satelliti di roccia e ghiaccio. E conosciamo già alcune di queste altre “otto sorelle” del sistema solare (6):

Caloris Montes su Mercurio, nel Bacino Caloris: altezza ca. 2000 m.

Montes Maxwell, parete ovest, su Venere, altezza ca. 12 000 m (fig. 8).

Olympus Mons, su Marte, altezza 21 183 m! (fig. 9).

Monte Eubea, su Io, satellite di Giove, altezza ca. 10 500 m (fig. 10).

Verona Rupes su Miranda, satellite di Urano, altezza ca. 5-10 000 m (fig. 11).

 

Fig. 8. I Maxwell Montes su Venere. Immagine realizzata dal Geophysical Imaging Laboratory della Southern Methodist University a Dallas, utilizzando dati altimetrici e radar della sonda Magellan della NASA.

 

 

 

 

Fig. 9. L’Olympus Mons su Marte, in un’immagine elaborata da riprese delle sonde Viking e dati altimetrici del Mars Orbiter Laser Altimeter a bordo della sonda Mars Global Surveyor.

  

 

Caloris, Maxwell ed Eubea hanno pendenze modeste, e quindi l’accesso per le loro vie normali non presenta difficoltà alpinistiche. L'Olympus Mons, invece (largo come l’intera penisola iberica!) , è circondato da una scarpata alta 3000 m e inclinata di 35°. Inoltre la Verona Rupes sembra proprio di gran lunga la parete verticale più alta dell'intero sistema solare! (la più alta sulla Terra è quella del Monte Thor, sull'isola di Baffin, e arriva a "soli" 1250 m).

In ogni modo le condizioni ambientali sono sempre proibitive. Ci vorranno sempre le bombole perché non c’è letteralmente aria da respirare. Su Marte basterà una tuta ambientale simile a quelle lunari, perché la temperatura è abbastanza tollerabile, in media -50°. Ma su Mercurio e Venere ci vorrà ben altro, per sopportare rispettivamente i 350° e i 450° alla superficie. Nel sistema solare più esterno bisognerà invece far fronte alle rigidissime temperature, che vanno da -150° (attorno a Giove) a -240° (su Plutone).

L’unico vantaggio sarà la bassa gravità, con l’eccezione di Venere (dove è simile alla Terra): si va da 1/120 (su Miranda) a 2/5 (su Marte) di quella terrestre. Riguardo a Miranda, è proprio la bassissima gravità che potrà trasformare un'ascensione impossibile in un'impresa tutto sommato abbastanza semplice. Si pensi infatti che un alpinista, tuta spaziale e materiale per l’arrampicata compresi, peserebbe all’incirca un chilo. Indubbiamente in queste condizioni la progressione sarebbe enormemente agevolata, anche se è difficile immaginare l'allenamento necessario a muoversi in una situazione che ricorda più l’assenza di peso. La bassa gravità determina anche un altro vantaggio su Miranda, la velocità di caduta, che è solo 1/11 di quella terrestre. Insomma, anche cadendo da grandi altezze, ci si farà poco male!

 

Fig. 10. Immagine tridimensionale del Monte Eubea su Io, ricavata da riprese stereoscopiche realizzate dalla sonda Voyager 1 e realizzata da Paul Schenk del Lunar and Planetary Institute della NASA a Houston.

 

 

 

 

 

 

Fig. 11. La Verona Rupes di Miranda  ripresa dalla sonda Voyager 2 (cortesia NASA-JPL).

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Note:

 

(1) Piero Bianucci. La Luna, Giunti, Firenze, 1988, pag. 109.

(2) Galileo Galilei. Sidereus nuncius, Marsilio, Padova, 1993, pag. 90. La prima apparizione a Venezia, nel 1610, di questo libretto dove erano descritte le prime meravigliose scoperte compiute da Galileo al telescopio, produsse grande clamore e sbalordimento nell'intera Europa. La visione del volto scabro della Luna, dei satelliti di Giove e di innumerevoli stelle invisibili a occhio nudo, costituivano vere mine vaganti per le credenze scientifiche del tempo. In particolare, la somiglianza delle superfici terrestre e lunare minava la dottrina aristotelica sull'incorruttibilità dei corpi celesti.

(3) Ibidem, pag. 94.

(4) Ibidem, pag. 110. Per altri metodi di misurazione, tutti abbastanza semplici, cfr. L. Stefanini, “Determinazione dell'altezza di rilievi lunari”, Giornale di astronomia, n. 1, 1979.

(5) Le rocce lunari appartengono a tre tipi: il basalto dei mari, la norite e l'anortosite. Le differenze fra questi sono più quantitative che qualitative, nel senso che ciascun tipo contiene più o meno gli stessi elementi chimici, ma in quantità anche molto diverse. L'anortosite, ad esempio, è molto ricca di ossido di alluminio, mentre il basalto dei mari contiene grandi quantità di ossido di ferro. Una differenza sostanziale, anche a prima vista, è data dal colore: il basalto dei mari è scuro, norite e anortosite sono più chiare. Ciò spiega anche l'evidente contrasto fra il colore dei bacini lunari (composti prevalentemente da basalto dei mari) e degli altipiani (in cui le rocce predominanti sono noriti e anortositi). La composizione mineralogica di tutti e tre i tipi di rocce lunari, comunque, è assai simile a quella dei basalti terrestri, anche se vi sono alcune differenze importanti. Per una discussione approfondita dell'argomento v.: Brian Mason, “Le rocce lunari”, Le Scienze, n. 41, 1972. Per una panoramica completa dei problemi riguardanti l'evoluzione della superficie lunare v.: J.E. Guest e R. Greeley. La geologia della Luna, Newton Compton, Roma, 1979.

(6) I dati più completi sulle montagne degli altri pianeti (assieme a dei primi progetti di esplorazione e salita!) si possono trovare nel libro di Paul Hodge. Più alto dell’Everest, CDA-Vivalda, Torino, 2003, di cui ho avuto il privilegio di curare l’edizione italiana.