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			Thomas Harriot  
			il primo osservatore telescopico 
			  
			  
			Nota: tutte le date sono in 
			calendario gregoriano. Anche se all’epoca l’Inghilterra adottava 
			ancora quello giuliano, la scelta è stata fatta per un criterio di 
			omogeneità ai fini del possibile confronto con le osservazioni 
			effettuate negli altri paesi e con le circostanze osservative 
			fornite dai vari software planetari. 
			  
			  
			Nel 2009, Anno Internazionale 
			dell’Astronomia, si è parlato molto, ovviamente, dell’invenzione del 
			telescopio e delle prime osservazioni con questo strumento. Fra 
			coloro che puntarono per primi un telescopio al cielo vi fu 
			l’inglese Thomas Harriot (fig. 1). Sulla riscoperta della vita e 
			delle opere di questo straordinario contemporaneo di Galileo, i cui 
			contributi sono stati per molto tempo avvolti nel mistero, è stato 
			fra l’altro incentrato l’intero Anno nel Regno Unito.  
			  
			
			 
			Fig. 1. Si pensava 
			che questo dipinto del 1602, secondo una tradizione dei 
			primi del '900, ritraesse Harriot, ma un restauro 
			del 1957 rivelò la dicitura visibile sull'età del personaggio 
			effigiato, 32 anni, 
			10 in meno dell’età di Harriot all’epoca (Trinity College, 
			Oxford).  
			  
			Thomas Harriot nacque nel 1560 ad 
			Oxford, ma non si conosce la precisa data di nascita, né i nomi e le 
			occupazioni dei genitori. Frequentò il St Mary’s Hall (fig. 2), uno 
			dei college afferenti all’Università cittadina, dove conseguì il suo 
			baccalaureato nel 1579, acquisendo un bagaglio particolarmente 
			approfondito nel campo della matematica.  
			  
			
			 
			Fig. 2. La St Mary’s 
			Hall, dove si laureò Harriot, in un’incisione del 1675 di David 
			Loggan. 
			  
			In quegli anni l’Inghilterra si stava 
			avviando a diventare la seconda potenza europea, dopo la Francia. 
			Già dai tempi di Enrico VIII aveva cominciato ad affermarsi come 
			potenza mercantile e marinara, ed era entrata in urto con la Spagna, 
			sia in varie zone dello scacchiere europeo sia nelle rotte 
			atlantiche. Nel 1558 era salita al trono la giovane figlia di Enrico 
			VIII e Anna Bolena, Elisabetta I (fig. 3), che completò l’opera del 
			padre, sbaragliando l’enorme flotta, l’Armada Invencible,
			che il sovrano spagnolo Filippo II aveva inviato a invadere 
			l’Inghilterra e deporne la regina.  
			  
			
			 
			Fig. 3. Ritratto di 
			Elisabetta I (Darnley Portrait) realizzato intorno al 1575, quando 
			la sovrana aveva 42 anni (Londra, National Portrait Gallery). 
			  
			Da quel momento iniziò il declino 
			della Spagna e l’irresistibile ascesa dell’Inghilterra sul proscenio 
			mondiale. Il Paese era permeato di febbrili attività mercantili e 
			marinare, sorrette, come sempre avviene nelle fasi di espansione 
			economica, dal fiorire della scienza, delle lettere, delle arti. I 
			suoi capitani, dotati di notevoli capacità tecniche, espansero i 
			commerci su tutte le principali rotte mondiali, comprese quelle 
			americane, dove erano in concorrenza con le navi francesi e 
			spagnole. Non si facevano scrupolo, come è noto, di ricorrere anche 
			alla guerra di corsa pur di compiere i loro guadagni. Alcuni di 
			questi corsari, come Martin Frobisher e Francis Drake, famoso il 
			primo per la ricerca del Passaggio a Nord Ovest, il secondo per aver 
			compiuto la seconda circumnavigazione del globo, furono anche tra i 
			fautori della sconfitta dell’Armada spagnola. Un altro 
			corsaro famoso fu Walter Raleigh (fig. 4), del quale Harriot 
			divenne, nel 1583, il pupillo. 
			  
			
			 
			Fig. 4. Ritratto di 
			Sir Walter Raleigh eseguito da Nicholas Hilliard nel 1585, all’età 
			di 33 anni (Londra, National Portrait Gallery). 
			  
			Raleigh era tuttavia ben più di un 
			corsaro. Di otto anni più vecchio di Harriot, oltre che uomo 
			d’azione, era un aristocratico nelle grazie della Regina, un 
			letterato di chiara fama, un uomo dalla profonda cultura e dai 
			molteplici interessi giunto, nei primi anni Ottanta del Cinquecento, 
			all’apice della sua fama, una delle personalità più importanti 
			dell’epoca elisabettiana, di fatto il principale iniziatore 
			dell’espansione coloniale britannica. Harriot fu impiegato da 
			Raleigh nella progettazione e nella costruzione delle sue navi e 
			nella scelta del suo equipaggio, ma soprattutto nella risoluzione 
			dei problemi di astronomia nautica. In particolare si occupò di 
			compilare tavole aggiornate di declinazione del Sole, di 
			semplificare la raccolta delle misure di altezza del Sole, della 
			Polare e delle altre stelle per determinare la latitudine, e 
			introdusse l’idea di usare l’amplitudine solare o di una stella per 
			determinare la declinazione magnetica. Egli tenne su questi temi 
			delle lezioni a cui partecipavano i capitani e i piloti di Raleigh, 
			oltre a Raleigh stesso e ai suoi amici, a Durham House, a Londra, la 
			residenza di Raleigh dove il matematico viveva in quel periodo. Ne 
			realizzò anche un manuale che veniva dato in dotazione a bordo delle 
			navi, Arcticon, che però non venne mai pubblicato e di cui 
			non è mai stata trovata traccia. Secondo lo storico John Roche, 
			grazie ad Harriot Raleigh aveva a quel tempo a disposizione la 
			migliore scienza nautica nell’intera Europa. 
			Nella cerchia di Raleigh erano 
			comprese alcune fra le menti più importanti del periodo, come John 
			Dee, potente astronomo e astrologo di corte, e Thomas Digges, primo 
			diffusore delle idee copernicane in Inghilterra (fig. 5). Attraverso 
			Raleigh, Harriot conobbe anche William Gilbert, medico della regina, 
			fondatore dello studio scientifico del magnetismo.  
			  
			
			 Fig. 
			5. L’universo copernicano secondo Thomas Digges 
			(da A perfit description of the 
			caelestiall orbes, Londra, 1576). Andando 
			al di là di Copernico, che immaginava ancora le stelle fisse tutte 
			ugualmente lontane, Digges le colloca a distanze variabili dal Sole. 
			  
			  
			Ottenuta da Elisabetta una patente 
			che gli conferiva ampi diritti sulle terre comprese fra i 35° e i 
			45° di latitudine, Raleigh organizzò varie spedizioni per la 
			colonizzazione dell’America. Nel 1584 fondò sulle coste 
			settentrionali del continente la prima colonia britannica sul suolo 
			americano, chiamandola Virginia, in onore della sovrana rimasta 
			nubile. L’anno successivo vi fece ritorno portando con sé, per le 
			sue competenze astronomiche e topografiche, anche Harriot. Fra 
			l’altro, dopo dieci giorni dalla partenza, il 29 aprile 1585, lo 
			scienziato osservò un’eclisse di sole al tramonto. Si trattava di un 
			particolare tipo di eclisse, ibrida, cioè anulare-totale (fig. 6), 
			ma visibile soltanto come anulare, e di breve durata, nella zona 
			dell’Atlantico dove si trovavano le navi. È possibile ipotizzare, 
			poiché il fenomeno non era visibile dal continente europeo, che la 
			partenza sia stata programmata in quei giorni per poterlo studiare. 
			  
			
			 Fig. 6. 
			Percorso dell’eclisse di Sole del 1585 osservata in alto mare da 
			Harriot (Fred Espenak e Jean Meeus/NASA/Google/Xavier M. Juber). 
			 
			
			Harriot si fermò per circa un anno e mezzo in Virginia ed ebbe il 
			tempo di osservare usi e costumi dei nativi Algonchini e di 
			impararne la lingua. Ne diede conto in A brief and true report of 
			the new found land of Virginia, pubblicato nel 1588, che è da 
			ritenersi a tutti gli effetti la prima opera di antropologia 
			culturale. 
			
			Quando fece ritorno dall’America, si recò in Irlanda, in veste di 
			amministratore dei possedimenti che Raleigh vi aveva, e di uno dei 
			quali il suo protettore gli fece dono. Per qualche anno visse in 
			Irlanda, anche grazie alle rendite che la proprietà gli assicurava, 
			ma poi ritornò in Inghilterra, e vendette la tenuta nel 1597. Nel 
			1592 la fortuna aveva però voltato le spalle al grande navigatore. 
			L’anno prima, infatti, sir Walter aveva sposato Elizabeth 
			Throckmorton, dama di compagnia della regina, ma in segreto e senza 
			chiederne l’autorizzazione reale com’era d’obbligo. Quando il 
			matrimonio fu scoperto, la dama fu allontanata dalla corte e Raleigh 
			fu incarcerato. La prigionia durò poco tempo, ma ormai il cavaliere 
			era caduto in disgrazia e, poiché non voleva coinvolgere i suoi 
			protetti nelle proprie disavventure, raccomandò Harriot ad un nuovo 
			mecenate, Henry Percy, Conte del Northumberland. Costui era 
			conosciuto anche come The Wizard Earl, a causa della sua passione 
			per la scienza, l’alchimia e la cartografia e la sua sterminata 
			biblioteca: le cronache raccontano che spendeva 50 sterline l’anno, 
			circa 125 000 euro attuali, per acquistare libri. Era amico di 
			letterati come Christopher Marlowe e John Donne e del citato John 
			Dee.
			
			Sotto l’ala di Percy si costituì un trio di filosofi, che 
			comprendeva anche Walter Warner e Robert Hues, chiamati i Tre Magi, 
			nel quale Harriot rappresentava il Mago “anziano”, che godeva di 
			molta libertà creativa e aveva l’unica incombenza di intrattenere e 
			conversare con il conte su ogni sorta di tematica. I due filosofi 
			“minori” ricevevano un emolumento di 60 sterline l’anno, mentre 
			Harriot riceveva una somma doppia, pari più o meno, a 300 000 euro 
			(curiosamente molto simile a quanto ricevette Galileo dal Granduca 
			di Toscana a partire dal 1610). Assieme a varie tenute e case, 
			questa somma gli fu elargita fino alla morte, e gli permise di 
			dedicarsi senza nessuna preoccupazione ai suoi studi. Il conte gli 
			diede anche in uso Syon House (fig. 7), una favolosa residenza 
			circondata da una tenuta di 80 ettari nella periferia di Londra, che 
			egli usò sia come dimora che come laboratorio scientifico a partire 
			dal 1597.
			  
			
			 Fig. 7. 
			La Syon House oggi (Russ Hamer). 
			 
			
			Negli anni Novanta Harriot si occupò di varie questioni matematiche. 
			Ancora quando era con Raleigh era stato invitato da questi a 
			dedicarsi a un problema tipicamente militare, stabilire la vera 
			traiettoria di un proiettile di cannone. Affrancandosi dalla fisica 
			aristotelica ancora dominante, lo scienziato riuscì a scomporre la 
			traiettoria in una componente verticale ed una orizzontale, comprese 
			che la resistenza dell’aria influiva sull’intera fase di volo, e che 
			la gravità agiva sulla componente verticale. Arrivò molto vicino ad 
			una soluzione dell’analisi vettoriale del problema di trovare la 
			velocità del proiettile e infine, nel 1607, giunse anche alla 
			conclusione che la traiettoria fosse una parabola inclinata.
			Si 
			occupò anche di ottica, misurando l’indice di rifrazione di vari 
			liquidi contenuti in un prisma di vetro cavo. Risolse il cosiddetto 
			problema di Alhazen, ovvero la ricerca del cammino che un raggio 
			luminoso deve percorrere (in un mezzo omogeneo) per giungere 
			all’occhio da una sorgente data, dopo aver subito riflessione su uno 
			specchio sferico. Alcuni pensano che per risolvere la questione 
			Harriot abbia usato delle tecniche basate sul calcolo 
			infinitesimale, introducendo idee che furono riprese decenni dopo 
			dal grande matematico Isaac Barrow, professore di Newton a 
			Cambridge. Inoltre in seguito, nel 1601, scoprì la legge che 
			descrive le modalità di rifrazione di un raggio luminoso nella 
			transizione tra due mezzi con indice di rifrazione 
			diverso, oggi nota come legge di Snell, il matematico olandese che 
			la trovò vent’anni più tardi.
			Si 
			occupò intensivamente anche di chimica, per circa un anno, dal 
			maggio 1599 al maggio 1600, ma a quanto sembra senza conseguire 
			risultati originali.
			Sempre negli anni Novanta Harriot 
			compì numerose osservazioni con il più grande dei suoi radii 
			astronomici, lungo ben dodici piedi (3,65 m), per ottenere una 
			misura precisa della distanza della Stella Polare dal polo nord 
			celeste (che in quel periodo era di quasi tre gradi). Si trattava di 
			un’esigenza irrinunciabile soprattutto per i naviganti. Topografi e 
			astronomi, infatti, non avevano problemi a trovare il nord vero con 
			altri metodi e strumenti, ma la cultura media dei marinai consentiva 
			loro di compiere soltanto osservazioni relativamente semplici, come 
			appunto prendere l’altezza della Polare. Una volta che era 
			conosciuta la vera distanza della stella dal Polo era abbastanza 
			agevole, con tavole o diagrammi, trovare il nord vero. Il radio 
			astronomico (fig. 8) era una versione della balestriglia, 
			strumento inventato nel Medioevo e costituito da due regoli di 
			diversa lunghezza. Il regolo corto era montato a croce a cavallo del 
			regolo lungo e scorreva su di esso. Mentre la balestriglia serviva 
			per misure di altezza, il radio misurava l'angolo di separazione fra 
			due astri: posto l'occhio a un’estremità del regolo lungo si faceva 
			scorrere il regolo corto finché le estremità, munite di mire, 
			sfioravano i due astri. Il rapporto fra la lunghezza del regolo 
			corto e la sua distanza dall’occhio permetteva, grazie a una tavola 
			delle tangenti, di ricavare l’angolo di separazione fra i due astri. 
			In altre versioni il regolo lungo era direttamente graduato. 
			  
			
			 Fig. 8.
			L’utilizzo 
			della Cross Staff (da Willem Janszoon Blaeu, Le flambeau de la navigation, 
			Amsterdam, 1619). 
			 
			Al 
			di là degli aspetti nautici, però, l’astronomia interessava Harriot 
			soprattutto per i suoi intimi rapporti con la matematica. Come 
			Thomas Digges e William Gilbert, era fortemente attratto dalla 
			semplicità e dall’eleganza matematica dell’universo eliocentrico di 
			Copernico. 
			Nel 
			1603, con la morte di Elisabetta, le cose sembrarono cambiare 
			radicalmente in Inghilterra. Il nuovo re Giacomo I fece arrestare 
			Raleigh con l’accusa di cospirare contro di lui. Un sommario 
			processo ne decretò la condanna a morte. Tentò il suicidio, ma 
			fallì. Allora chiese ad Harriot di testimoniare in suo favore, ma 
			non ci fu nulla da fare, la pena venne confermata e lo stesso 
			Harriot sospettato di essere ateo e di avere un’influenza maligna 
			sul condannato. Il matematico fu terribilmente turbato da tutto ciò 
			e per circa un anno non fu in grado di dedicarsi a nessun lavoro 
			scientifico. Raleigh ricevette però all’ultimo momento la grazia, 
			che fu commutata in una reclusione a vita nella Torre di Londra. Nel 
			1605 anche il secondo protettore di Harriot, Percy, fu arrestato, 
			con l’accusa  di essere stato a conoscenza della Congiura delle 
			Polveri, a cui aveva partecipato anche il nipote Thomas, e di non 
			averne avvertito le autorità. Fu rinchiuso anch’egli nella Torre, da 
			dove uscì solo nel 1621. Perfino Harriot fu sospettato di essere 
			ostile al re, in quanto aveva redatto un oroscopo per Giacomo I che, 
			secondo gli inquirenti, aveva l’obiettivo di influenzarne la 
			politica. Per questo, fu imprigionato e rilasciato solo dopo tre 
			settimane.  
			
			Dopo il rilascio, egli si occupò soprattutto di ottica, studiando la 
			dispersione della luce nei vari colori e cominciando a sviluppare 
			una teoria sul fenomeno dell’arcobaleno. Keplero venne a conoscenza 
			dei suoi studi, e per qualche tempo fra i due vi uno scambio di 
			corrispondenza, che non portò però a feconde conclusioni a causa, 
			pare, della reticenza dell’inglese sui propri risultati.
			
			Prima dell’avvento del telescopio, come astronomo pratico Harriot si 
			occupò soprattutto di comete, osservandone una decina. Egli a quanto 
			pare usò sempre, come strumenti, radii astronomici di varie 
			dimensioni, anche se non così grandi come quello prima citato. Con 
			questi riusciva a misurare angoli fino a due arcominuti. Celebri 
			sono le sue osservazioni fotometriche e astrometriche della cometa 
			del 1607, che altri non era che la Halley (fig. 9). 
			
			In quel passaggio la sua testa raggiunse la magnitudine 0 e la sua 
			coda risultò lunga 8-10°, fu vista da astronomi del calibro di 
			Keplero, Longomontano, Benedetto Castelli, ma quelle di Harriot, che 
			osservò da Syon House assieme all’amico, cognato di Percy, William 
			Lower, furono di gran lunga le osservazioni più complete e precise. 
			
			Quando F.W. Bessel, nel 1808, riuscì a ricostruire gli elementi 
			orbitali di quel passaggio, utilizzò solo un’osservazione di Keplero 
			e una di Longomontano, ma ben otto di Harriot.
			  
			
			 
			Fig. 9. La cometa del 1607 
			raffigurata nella Cometographia di Hevelius (Danzica, 1668). 
			  
			Il 
			telescopio, com’è noto, fu inventato nei Paesi Bassi nel settembre 
			del 1608. Da lì, rapidamente, la notizia del nuovo ritrovato e anche 
			la capacità di replicarlo si propalò per tutta l’Europa. Galileo ne 
			sentì parlare per la prima volta nel maggio del 1609 e nel mese di 
			agosto fu in grado di costruire uno strumento di potere simile a 
			quelli olandesi, nove ingrandimenti, che presentò al governo 
			veneziano il 21 del mese. 
			In un 
			bollettino stampato a L’Aja nel 1608 si affermava che il telescopio 
			era stato anche puntato verso il cielo e che “…le stelle che 
			ordinariamente non appaiono alla nostra vista … si possono vedere 
			per mezzo di questo strumento.”, ma non sappiamo chi e quando abbia 
			compiuto questa esperienza. Galileo, d’altra parte, non usò subito 
			il telescopio come strumento astronomico, e le prime sue 
			osservazioni datate, come si desume dal
			Sidereus nuncius, sono del 7 gennaio 1610, data in cui scoprì 
			i primi tre satelliti di Giove. È stato anche sufficientemente 
			chiarito come sia impossibile datare i disegni lunari del 
			Sidereus, dal momento che essi corrispondono ad un’impressione 
			di massima di come appare la Luna nelle diverse fasi, piuttosto che 
			essere la riproduzione di particolari realmente esistenti visibili 
			in una fase particolare, anche se è probabile che Galileo iniziasse 
			le sue osservazioni almeno da ottobre 1609, perché in quel mese 
			aveva mostrato la Luna al granduca Cosimo II. Invece, Harriot lasciò 
			scritto nei suoi appunti che rivolse un telescopio olandese da sei 
			ingrandimenti verso la Luna la sera del 5 agosto 1609. Quindi, senza 
			alcun dubbio, la sua è la prima osservazione registrata di un 
			qualsiasi corpo celeste effettuata al telescopio. 
			Non sappiamo come Harriot si procurò 
			lo strumento, anche se è probabile che si trattasse proprio di uno 
			strumento di fabbricazione olandese importato. Diversi autori, 
			soprattutto inglesi, hanno affermato che vari passi di scienziati di 
			epoca elisabettiana, Leonard e Thomas Digges, Robert Recorde, John 
			Dee, William Bourne, lo stesso Harriot, farebbero pensare che un 
			qualche tipo di telescopio fosse stato inventato in Inghilterra 
			prima del 1588 ma, ad un esame più accurato, si comprende come le 
			loro fossero soltanto speculazioni su ciò che si sarebbe potuto 
			fare, non su ciò che era già stato fatto, utilizzando lenti e 
			specchi, non più lenti, e meno che meno lenti concave, come quelle 
			utilizzate per l’oculare dei telescopi olandesi.Il passo che 
			riguarda Harriot è il riferimento al fatto che, quando si trovava in 
			Virginia, aveva mostrato agli Algonchini incuriositi tutto il suo 
			armamentario di strumenti scientifici, incluso a perspective 
			glasse whereby was shewd manie strange sightes. Ora, se andiamo 
			a vedere su un dizionario di riferimento come il Webster scopriamo 
			che un perspective glass è “un telescopio che mostra gli 
			oggetti nella giusta posizione”, probabilmente, si intende, un 
			telescopio raddrizzatore, terrestre, ma questa è una locuzione 
			moderna, entrata in uso dopo il Rinascimento, forse nel settecento 
			(la usa Daniel Defoe in Robinson Crusoe). Harriot può aver 
			voluto indicare qualunque cosa, a partire proprio dal significato 
			più comune dei due termini separati, “vetro” e “prospettico”, forse 
			una lente che deformava gli oggetti, e così si spiegherebbe anche 
			perché mostrava “molte strane visioni”, non ingrandite, non vicine, 
			strane, appunto. D’altra parte, anche il secondo significato 
			riportato dal Webster per perspective glass giustifica questo 
			assunto: “qualsiasi dispositivo ottico in grado di fornire un 
			effetto fantastico o un’illusione ottica”. In ogni caso il 
			cosiddetto “telescopio dei Tudor”, di cui hanno parlato anche 
			giornali non specialistici, è una grossa bufala, come riconoscono 
			del resto anche gli autori inglesi più avveduti.  
			Certo, il primo telescopio di Harriot 
			doveva essere molto scadente perché, nel disegno che egli fece della 
			Luna, si vede meno di quanto si possa scorgere a occhio nudo sul 
			nostro satellite (fig. 10). A differenza di Galileo, quindi, 
			probabilmente egli non capì ciò che stava guardando, ovvero mari, 
			vallate e montagne appartenenti ad un altro mondo, simile al nostro. 
			Forse si può immaginare ciò che pensò leggendo quanto gli scrisse 
			Lower il 16 febbraio 1610, dopo aver osservato a sua volta per 
			diversi mesi la Luna dalla sua tenuta di Traventi, nel Galles: “Nel 
			complesso essa somiglia a una torta che mi fece la mia cuoca la 
			settimana scorsa; una macchia di sostanza luminosa qua, e una 
			macchia di sostanza scura là, e così  dappertutto, confusamente.”
			 
			  
			
			 
			Fig. 10. 
			La Luna raffigurata da Harriot il 5 agosto 1609, a sinistra, a 
			confronto con un disegno effettuato a occhio nudo dall’autore una 
			decina di anni fa. 
			  
			
			Nell’inverno 1609-1610, quindi contemporaneamente a Galileo, William 
			Lower osservò al telescopio anche le Pleiadi e la zona della spada 
			di Orione, come risulta da una lettera scritta ad Harriot il 23 
			giugno 1610. Anche il suo telescopio, però, non doveva essere dei 
			migliori, perché nelle Pleiadi scorse solo sette stelle, mentre 
			Galileo ne aveva viste una quarantina. 
			  
			
			 
			Fig. 11. Mappa della 
			Luna realizzata da Harriot nel 1611. Nell’originale il diametro 
			lunare è di 15 cm. Vi sono 72 particolari annotati con lettere 
			dell’alfabeto e numeri da 1 a 50. Queste indicazioni tuttavia non 
			corrispondono a una legenda ma, stando alle note che accompagnano la 
			mappa, sembrano costituire punti con relazioni geometriche fra loro. 
			Nelle note vi sono però riferimenti a isole e promontori e nomi come 
			Tycho, Copernicus, Plato, Hipparchus. Non è noto se questi si 
			riferiscano agli stessi crateri così denominati da Riccioli 40 anni 
			dopo, ma non possiamo escludere che il gesuita ferrarese fosse a 
			conoscenza del lavoro di Harriot.  
			  
			In 
			seguito Harriot fece costruire i suoi telescopi dal suo assistente a 
			Syon House, Christopher Tooke, che ne realizzò da 8, 10, 20, 30 e 
			perfino 50 ingrandimenti, fornendone anche a Percy e Lower. Dopo 
			aver letto il Sidereus Nuncius di Galileo (pubblicato il 13 
			marzo 1610), Harriot e Lower tornarono a osservare la Luna con occhi 
			diversi. Il primo realizzò altri 18 disegni della superficie lunare, 
			17 fra il 27 luglio e il 4 novembre 1610 con telescopi da 10 e 20 
			ingrandimenti, e uno il 19 aprile 1611 con uno da 32 ingrandimenti. 
			I suoi disegni delle varie fasi lunari sono tecnicamente molto 
			inferiori a quelli di Galileo, poco più che schizzi, ma egli 
			realizzò anche delle mappe del nostro satellite, molto più fedeli 
			delle rappresentazioni galileiane per ciò che concerne la resa di 
			particolari realmente esistenti (fig. 11). Comunque i debiti di 
			Harriot e Lower emergono chiaramente da ciò che scrisse il secondo 
			nella lettera poco prima citata: “Penso che … Galileo abbia fatto di 
			più con le sue scoperte che non Magellano trovando lo stretto per il 
			mare del Sud …  Nella Luna io ho osservato tempo addietro una strana 
			chiazzatura dappertutto, ma non sarei mai arrivato a concepire che 
			qualche parte di questa potesse essere formata da ombre.”  E infatti 
			il primo disegno di Harriot dopo la lettura del Sidereus, 
			quello del 27 luglio 1610, è molto diverso da quello del 1609 e, 
			secondo la storica Terrie Bloom, si tratta in questo caso di un 
			esempio di “percezione derivata”, nel senso che sembra “troppo” 
			ispirato a uno di quelli pubblicati nel Sidereus: molto 
			simili le protuberanze che dalla parte luminosa si protendono nella 
			parte oscura, e il grande cratere in posizione mediana (fig. 12). 
			Somiglianze sospette anche perché il telescopio dell’inglese, pur se 
			più potente di quello usato per il primo disegno, era comunque 
			inferiore a quello presumibilmente usato da Galileo. 
			
			  
			
			 Fig. 12. 
			A confronto il secondo disegno lunare effettuato da Harriot il 27 
			luglio 1610, a sinistra, e un disegno di Galileo apparso nel
			Sidereus nuncius. 
			  
			
			Probabilmente Harriot fu anche il primo a vedere le macchie solari 
			al telescopio. La sua prima osservazione solare è del 18 dicembre 
			1610. L’astronomo frisone Johannes Fabricius le vide per la prima 
			volta nel febbraio 1611 mentre la prima osservazione del gesuita 
			svevo Cristoph Scheiner è del marzo dello stesso anno. Quanto a 
			Galileo, in una lettera del 1631 che gli scrisse il padre Fulgenzio 
			Micanzio è riportato che il toscano le vide già nel luglio-agosto 
			1610, ma una testimonianza così posteriore, e proveniente da un 
			amico fidato su un argomento così scottante e che aveva già dato 
			adito a molte polemiche di priorità, non è probabilmente 
			attendibile. Tanto più che esiste il sospetto che l’affermazione 
			possa essere stata richiesta da Galileo per collegarla ad una 
			analoga contenuta nel Dialogo sui massimi sistemi, licenziato 
			nel 1630, pubblicato nel 1632. E probabilmente non molto più 
			attendibili debbono essere ritenute le autoattestazioni contenute 
			nella Prima lettera sulle macchie solari e nella lettera a 
			Barberini del 2 giugno 1612, anche perché in contraddizione con la 
			prima (la scoperta viene posticipata rispettivamente a novembre e 
			dicembre 1610). La prima prova sicura pro Galileo è dell’aprile 
			1611, in occasione di una sua visita a Roma, ed ebbe numerosi 
			testimoni. Tuttavia, anche in questa occasione, come ha mostrato 
			John North, Harriot, disegnando le macchie in modo molto schematico 
			(fig. 13), non realizzò la portata di ciò che stava guardando. 
			Soltanto dopo che nell’autunno 1611 Fabricius pubblicò le sue 
			osservazioni nel De maculis in sole observatis, affermando 
			che le macchie avevano un aspetto nebuloso e appartenevano alla 
			superficie di un sole in rotazione su se stesso, il matematico 
			inglese raffigurò le macchie come chiazze nebulose. Egli eseguì ben 
			199 osservazioni delle macchie solari, per oltre due anni. 
			Stranamente, benché conoscesse il metodo di osservazione tramite 
			proiezione, impiegato dagli altri astronomi, continuò sempre a 
			osservare il Sole direttamente attraverso il telescopio, 
			approfittando dei momenti in cui la sua luce era indebolita dalla 
			scarsa altezza e dall’immersione nella foschia o nella nebbia. Fino 
			all’11 dicembre 1611 sembra che non vi abbia più prestato molta 
			attenzione, perché registrò solo un’altra osservazione, il 29 
			gennaio. L’11 dicembre tornò a osservarlo perché era stato previsto 
			in quella data dall’astronomo italiano Giovanni Antonio Magini un 
			transito di Venere. Anche se la previsione si rivelò errata, da quel 
			momento Harriot lo seguì costantemente. Conformandosi alle opinioni 
			di Fabricius (e di Galileo) sulla natura delle macchie, comprese che 
			questo rafforzava le opinioni antiaristoteliche e costituiva un 
			argomento a favore di Copernico. Studiò l’evoluzione delle macchie 
			per diverse rotazioni solari, e misurò in poco più di 27 giorni il 
			periodo di rotazione. 
			  
			
			 
			Fig. 13. Le macchie 
			solari in due disegni di Harriot effettuati da Syon House il 6 e il 
			10 agosto 1611. 
			 
			
			Harriot effettuò anche diverse osservazioni dei satelliti medicei. A 
			quanto risulta dalle sue carte, egli li osservò per la prima volta 
			solo il 27 ottobre 1610. Infatti, pur avendone avuto notizia nella 
			tarda primavera da Keplero o dalla lettura del Siderus nuncius, 
			Giove non si presentò in posizione favorevole fino all’autunno. Da 
			allora, fino al 7 marzo 1612, fece numerose osservazioni del 
			pianeta, talvolta misurando anche le distanze angolari dei satelliti 
			dal pianeta, anche se non è chiaro quale metodo usasse. D’altra 
			parte, gli storici ignorano ancora quale fosse il vero sistema 
			utilizzato da Galileo che, com’è noto, effettuò centinaia di queste 
			misurazioni. 
			
			Harriot produsse molti altri risultati nell’ambito della matematica. 
			In algebra introdusse una notazione semplificata, diversi simboli 
			che sono usati ancor oggi ed effettuò ricerche fondamentali sulla 
			teoria delle equazioni, che condussero a trovare soluzioni negative 
			e complesse anche di equazioni di grado elevato. Lavorò sulla 
			spirale logaritmica (cosiddetta perché le distanze fra i suoi bracci 
			aumentano in progressione geometrica), mostrando che era una 
			proiezione stereografica di una lossodromia (linea avente la 
			proprietà di tagliare tutti i meridiani con lo stesso angolo) su una 
			sfera, proiezione che egli dimostrò essere conforme (ovvero che 
			conserva gli angoli), e calcolò le lossodromie con grande 
			precisione, introducendo per questi calcoli l’interpolazione con 
			l’operatore per differenza finita. 
			
			Inoltre lavorò sulla bilancia idrostatica e intuì, prima di Keplero, 
			che le orbite dei pianeti non erano perfettamente circolari.
			
			Intorno al 1613 Harriot cominciò a perdere interesse nello 
			sviluppare i suoi interessi matematici  e scientifici: si manifestò 
			sul suo volto un’escrescenza carnosa, per la quale, nel 1615, 
			consultò i migliori specialisti. Una piaga cancerosa sviluppatasi 
			dalla narice sinistra si era via via accresciuta fino a consumare il 
			setto nasale, spingersi fino alle labbra e al resto del naso. Con 
			molta probabilità il male era collegato all’abitudine di fumare 
			tabacco, pianta che lui e Raleigh furono fra i primi a introdurre in 
			Inghiterra.
			Il 
			suo morale, già provato dal male, fu messo a ulteriore dura prova 
			tre anni più tardi. Sir Walter Raleigh fu rilasciato nel 1616 per 
			guidare una spedizione in Venezuela alla ricerca dell’Eldorado, ma 
			attaccò senza autorizzazione un avamposto spagnolo, violando gli 
			accordi con la potenza straniera. Il conte di Gondomar, potentissimo 
			ambasciatore iberico a Londra, pretese dal re, e ottenne, la sua 
			condanna a morte, e sappiamo dalle cronache che all’esecuzione, l’8 
			novembre 1618, dovette assistere, in ossequio ai costumi del tempo, 
			anche il devoto amico ed ex pupillo Thomas. 
			
			Pochi giorni più tardi Harriot ebbe occasione di assistere 
			all’apparizione della più luminosa delle tre comete apparse quell’anno 
			(fig. 14). Ne compì almeno nove osservazioni, fra il 30 novembre e 
			il 25 dicembre. Fu veramente un evento memorabile, perché la testa 
			dell’astro raggiunse una luminosità tale da essere visibile in pieno 
			giorno, e la coda superò i 100° di lunghezza! Forse l’indole triste 
			e malinconica che, secondo molti storici, era tipica di Harriot, 
			aggravata dalle tragiche circostanze degli ultimi anni, dovette 
			fargli credere che era l’anima dello sfortunato amico che stava 
			tornando a farsi vedere nei cieli, e con la stessa grandezza, 
			nitidezza e splendore che aveva caratterizzato l’avventura terrena 
			del grande capitano. 
			  
			
			 
			Fig. 14. Due aspetti 
			della Grande Cometa del 1618, secondo le osservazioni dell’astronomo 
			svizzero Johann Baptist Cysat ( da Hevelius, Cometographia). 
			
			Infine, il tumore al volto ebbe ragione di Harriot, che morì nella 
			sua casa di Threadneedle Street, nel cuore di Londra, il 12 luglio 
			1621. Fu sepolto nella vicina chiesa di S. Cristopher, che fu 
			distrutta nell’incendio del 1666. Al suo posto si trova ora la sede 
			della Banca d’Inghilterra. Per fortuna, però, è sopravvissuta 
			l’iscrizione della pietra tombale, che nel 1971 è stata riportata su 
			una piastra di bronzo fissata a una parete della banca, sotto la 
			quale, da qualche parte, si trovano ancora i resti mortali 
			dell’illustre inglese. 
			Incredibilmente, di 35 anni di lavoro 
			originale Harriot, in vita, pubblicò solo il breve trattato sulla 
			Virginia. I suoi contributi di algebra, Artis Analyticae Praxis 
			ad Aequationes Algebraicas Resolvendas, apparvero solo dieci 
			anni dopo la sua morte, e fra l’altro in un’edizione non in grado di 
			valorizzare adeguatamente la profondità del suo approccio. Così, il 
			suo lavoro ebbe un’influenza molto inferiore a quella che avrebbe 
			potuto. E gli altri risultati in matematica, fisica e astronomia 
			circolarono soltanto fra gli amici e alcuni colleghi, per mezzo di 
			lettere, e principalmente in Inghilterra. 
			
			Sono state avanzate molte ipotesi per cercare di spiegare questa 
			riluttanza a pubblicare. 
			Sicuramente Harriot aveva un carattere piuttosto riservato e forse 
			timido, era un perfezionista, timoroso delle critiche. Inoltre 
			mancava dello zelo evangelico di un Galileo e, a differenza di 
			questi, non aveva una famiglia da mantenere. Aveva una cospicua 
			rendita assicurata, la sua vita era oltremodo agiata, e non aveva 
			quindi bisogno di ricercare la fama come un’assicurazione sulla 
			vita. Probabilmente però gli ostacoli più grandi alla pubblicazione 
			vennero da fattori politici: i tempi erano pericolosi e, soprattutto 
			dopo gli arresti di Raleigh e Percy e i suoi stessi guai giudiziari, 
			ritenne più prudente mantenere un basso profilo. Dobbiamo anche 
			ricordare, fra l’altro, come, dopo la Congiura delle Polveri, la sua 
			casa fosse stata ripetutamente perquisita dagli agenti del re in 
			cerca di prove di un suo coinvolgimento.
			Il lavoro di Harriot venne alla luce 
			solo nel 1785 grazie a John Maurice, conte di Brühl, ambasciatore 
			sassone a Londra e all’astronomo ungherese Franz Xaver von Zach, in 
			visita in Inghilterra, che esaminarono le sue carte, riconobbero la 
			loro importanza, ne diedero notizia nell’Europa continentale e ne 
			raccomandarono la pubblicazione. Ma fu solo nel 1833 che gli inglesi 
			ebbero modo di conoscere il loro illustre predecessore, quando 
			Stephen Peter Rigaud, professore di astronomia a Oxford, preparando 
			per la pubblicazione le opere di James Bradley, astronomo reale dal 
			1742 al 1761, inserì come supplemento a queste una piccola parte dei 
			suoi lavori astronomici. E fu solo in quella occasione che vennero 
			rese note le sue osservazioni telescopiche.  
			I manoscritti originali di Harriot 
			sono conservati alla British Library, in seguito alla donazione del 
			1810 di Lord Egremont, e alla Petworth House nel Wiltshire. Nel 
			ventesimo secolo essi hanno ricevuto tutta l’attenzione che meritano 
			da parte degli storici della scienza, inglesi e non. Ma la loro 
			pubblicazione, che sembrava imminente negli anni Sessanta, è sempre 
			stata differita. Speriamo ardentemente che sia finalmente giunto il 
			momento che una più ampia cerchia di addetti ai lavori e di 
			appassionati possa conoscere integralmente il contributo di questo 
			grande genio dell’umanità. |