Incidents of travel
in Signalkuppe
Finalmente,
dopo sei anni un progetto è diventato realtà (v. L'Astronomia
n. 108, p. 59). Osservare il cielo con un telescopio dalla capanna
Margherita alla punta Gnifetti, a 4559 msm, nel massiccio del Monte
Rosa. Ma anche, poiché questo è già stato fatto (v. L'Astronomia
n. 74, p. 57), essere i primi a fotografarlo, il cielo, di lassù, e
a portare a spalla il telescopio, in puro stile alpino, per così
dire.
Non avrei mai
pensato, in tutto questo tempo, che la fatica maggiore sarebbe stata
trovare dei compagni disponibili a dividere con me la fatica. E
invece, a parole l'idea entusiasmava tutti ma poi, quando si
trattava di concretizzare, chi presto e chi tardi si defilava
irrimediabilmente. Soltanto quest'anno ho trovato due «pazzi»
disposti ad accompagnarmi, Marino Vago, socio della Rheticus
e il suo amico Franco Scopel.
Purtroppo il
periodo della luna nuova di quest'anno centrato ad agosto è già
occupato dall'allestimento di Luci dal cielo, la grande
manifestazione per l'osservazione pubblica delle Perseidi che ha
luogo tutti gli anni sul monte Avena. La scelta non può quindi che
cadere intorno al novilunio di luglio, con decisione elastica aperta
all'intero periodo che va dal 10 al 20 (la luna nuova è il 15) in
dipendenza delle previsioni meteorologiche. É sicuramente troppo
presto per le nostre condizioni di allenamento: nessuno di noi è
andato in montagna più di due o tre volte nella stagione e nessuno
ha avuto la possibilità di fare almeno un tremila nelle Dolomiti. Il
peso del mio Schmidt Cassegrain da 25 cm, 35 chili più una
quindicina di chili fra accessori e materiale fotografico, viene
ripartito in tre zaini di peso uguale, che alla fine peseranno
ciascuno non meno di venti chili. Confido comunque nel ricordo di
dieci anni prima, quando un trekking di sei giorni nella zona, con
quindici chili sulle spalle e con salita e pernottamento anche alla
capanna Margherita, non mi diede assolutamente alcun problema.

La Punta Gnifetti
dal Colle del Lys: si intravvede, sull'estrema sinistra della punta,
la capanna Margherita.
Fino al 9
luglio il Paese, come del resto molte volte nell'estate, è nella
morsa del maltempo e nelle Alpi Occidentali c'è addirittura un clima
da tregenda, con inondazioni, mezze alluvioni, straripamenti di
fiumi, incidenti mortali in montagna. Poi, da mercoledì 10 il tempo
si rimette al bello e le previsioni sono confortanti per tutta la
settimana. Si decide quindi la partenza per giovedì 11.
Da Alagna
Valsesia la funivia ci porta a superare i primi 2000 metri di
dislivello fino a Punta Indren, a 3260 m. La prima tappa, sulla
carta, è semplice: 400 m di dislivello fino al rifugio Gnifetti, a
3647 m. Appena partiti, però, capiamo subito che tre persone sono
troppo poche per portare, a quelle quote, un peso del genere. Io,
fra l'altro, ho circa sei chili di materiale fotografico vario in
una borsa a tracolla che non sono riuscito a distribuire perché
nessuno aveva più posto. La fatica è resa maggiore dal fatto che è
pomeriggio inoltrato e si sprofonda di quindici centimetri nella
neve marcia. Una lunga sosta al rifugio Città di Mantova, a 3498 m,
da dove il Gnifetti sembra a un tiro di schioppo, ritempra l'animo.
Ma non è che un momento: dopo un tratto in falsopiano, la dura
pendenza, associata allo sbilanciamento provocato dal peso dello
zaino e della borsa, mi fa temere a ogni momento di scivolare di
sotto, con il rischio di frantumare le ottiche (ho io il tubo del
telescopio) e, quel che è peggio, di dover risalire quasi l'intero
tratto di nuovo. Soprattutto l'ultimo pezzo, in costa, con il
sentiero ormai reso fradicio dal sole, è a rischio: ci vorrebbero i
ramponi, ma non c'è spazio per metterli. Alla fine, facendo appello
alle energie residue, riesco a issarmi sulla scala del rifugio. Lo
sforzo finale mi provoca un giramento di testa e una leggera nausea;
mai provato niente del genere, in vita mia, nemmeno 1000 metri più
in alto: se il buongiorno si vede dal mattino...

Panorama dalla punta Gnifetti verso
il Cervino.
I miei compagni
hanno un po' di mal di testa: i disturbi passano quasi d'incanto con
un salutare infuso di mathè de coca, la bevanda che i popoli andini
usano per combattere gli effetti dell'ipossia, gradito souvenir che
Marino ha riportato dalla spedizione in Perù per l'eclisse di Sole
del 1994. Tuttavia la fatica fatta, già a quote così basse rispetto
a quelle che dovremo affrontare il giorno dopo, mi suggerisce di
proporre di sostituire la salita alla Margherita, per l'indomani,
con la scalata di un quattromila, come la piramide Vincent, con
ritorno per la notte al medesimo rifugio Gnifetti. É questa del
resto la strategia migliore per l'adattamento alle alte quote,
conosciuta già da alcuni decenni e sperimentata con successo dagli
alpinisti in tutti i continenti.
Ma i miei
compagni insistono: del resto abbiamo tutto il giorno a
disposizione, non vi sono pericoli di distacco di seracchi o di
scariche di materiale lungo il percorso, anche con il caldo.
Dobbiamo fare 900 metri di dislivello. Ci abbiamo messo due ore e
mezza per farne 400, anche tenendo conto della quota maggiore non
dovremmo impiegarci più di sei o sette ore. Mi lascio convincere,
anche perché dieci anni prima ho impiegato, per quel tratto, non più
di tre ore. So già però, in cuor mio, che l'indomani ci aspetta un
vero calvario. Anche per questo lascio giù al rifugio i sei chili
della borsa fotografica.

I tre componenti la spedizione
ripresi davanti alla capanna Margherita: da sinistra Marino Vago,
Gabriele Vanin e Franco Scopel.
La sveglia
all'alba ci concede uno spettacolo da favola: è il 12 luglio,
giorno dell'occultazione di Venere da parte della Luna e i due astri
sono già molto vicini, a circa due gradi l'uno dall'altro. Il cielo
è limpidissimo, peccato non averne approfittato la notte precedente:
d'altra parte se si vuole partire presto si deve andare a dormire
con le galline. Issandomi il terribile peso sulle spalle ho la
precisa coscienza che per la prima volta in vita mia non so se
riuscirò a raggiungere la meta.
Le prime due
ore filano via abbastanza liscie, su per il ghiacciaio del Garstelet,
anche perché camminiamo all'ombra e fa abbastanza fresco. Ogni venti
minuti però dobbiamo mettere giù il sacco, le spalle non ce la fanno
a resistere. A ogni sosta cerco la falce di Luna: in quel cielo blu
scuro si vede distintamente a occhio nudo Venere che le si fa sempre
più vicino. É strano: in 25 anni non sono mai riuscito a vedere, e
tantomeno ad osservare, per colpa del maltempo, le rare occultazioni
planetarie visibili dal nostro Paese; dovevo venire qui per avere
quest'opportunità. Programmiamo una sosta appena prima che Venere si
nasconda. L'altimetro di Marino dice che siamo ormai a 3900 m; i due
corpi si continuano a vedere facilmente senza ausilio ottico ma
quando Franco mi presta il suo binocolo 8 x 20 di una qualità ottica
sopraffina, la visione diventa altamente spettacolare. Riesco a
misurare, al secondo, il momento della sparizione completa del
pianeta, preceduto da una diminuzione di luce durata forse uno o due
secondi (l'atmosfera venusiana?): 9:48:09 di TLE.
La pacchia è
finita, si riprende a camminare, questa volta sotto un sole cocente
che alla fine ci cucinerà orribilmente la faccia, nonostante le
megaprotezioni utilizzate. Alle undici si cominciano a sentire i
morsi della fame: abbiamo mangiato pochissimo, per evitare nausee e
indisposizioni intestinali. |
Altra sosta, a
4150 m, per assistere alla riemersione di Venere, che è ancora più
spettacolare della sparizione, poiché avviene sul lato non
illuminato del satellite: il pianeta sembra emergere dal nulla alle
11:15:09, ma riacquista il completo splendore soltanto qualche
momento dopo. Penso che valeva la pena essere qui anche solo per
assistere a questo fenomeno, in questo modo.
Al Colle del
Lys, a quota 4250, dove arriviamo a mezzogiorno, siamo già finiti:
il mal di testa è ormai fastidioso, la difficoltà respiratoria
sensibile, le spalle fanno un male del diavolo, Franco ha un
continuo senso di nausea ma, soprattutto, ci sentiamo spossati,
senza più forze. Dopo mezz'ora di sosta al Colle, Marino, che ha più
fisico, riparte, noi prima dell'una non riusciamo a tirar su gli
zaini: abbiamo ancora soltanto 300 metri di dislivello, ma prima c'è
un lungo tratto pianeggiante, il che significa portare a
spasso un paio d'ore di più le nostre zavorre.
Ormai le soste
sono una ogni dieci minuti, anche nel piano. Si fa una fatica immane
anche solo a mettere giù e a tirare su il carico. Poi, quando la
traccia ricomincia a salire, c'è solo da stringere i denti e non
pensare allo zaino che ti sega le spalle, alle gambe che cedono
sotto il peso, al respiro che non viene, al sole che ti cuoce la
testa. In certi momenti riesci solo a pensare a mettere un piede
dietro l'altro, vorresti fermarti a ogni momento, no, altri dieci
passi, uno, due, tre ... poi altri dieci, poi ancora dieci, basta,
fermiamoci. Non ho mai fatto tanta fatica così, in vita mia. Mi
stupisce il fatto che, anche se da dieci ore non tocchiamo cibo, si
riesca ancora ad andare avanti, nonostante la fame e il vuoto che
senti nello stomaco. Evidentemente il basso livello di impegno
fisico ci permette di proseguire metabolizzando esclusivamente i
lipidi di riserva. D'altra parte il timore della nausea o del vomito
ci tiene lontano dal cibo. Alle 16:30, dopo nove ore di ascensione,
Marino arriva in cima. Noi siamo ormai lì sotto, la capanna è ormai
a portata di mano, ma ci concediamo ancora una lunga sosta.
Ormai abbiamo
l'anima di fuori. Per fortuna, nella sfortuna, il tempo si sta
guastando e il temporale si sta avvicinando, mettendoci (si fa per
dire...) le ali ai piedi. Riusciamo a concederci solo un'altra
sosta prima di arrivare in cima, in mezzo ormai a una specie di
bufera. Abbiamo impiegato dieci ore e mezza, cose da pazzi, neanche
cento metri all'ora di dislivello. Il tempo, per quella notte, non
si rimette più, togliendoci per fortuna l'antipatica incombenza di
verificare se siamo ancora in grado di stare in piedi, montare gli
strumenti e osservare. Certo, sarebbe drammatico se anche la seconda
notte andasse buca, dopo tutta la faticaccia che abbiamo fatto! Il
mathè de coca fa ancora miracoli, attutendo i sintomi del mal di
montagna, ai quali si è aggiunta l'anoressia: per il resto della
nostra permanenza al rifugio mangeremo solo minestre.

La via Lattea in
una ripresa fish-eye. Da notare l’inquinamento luminoso della
Pianura Padana!
Per fortuna
sabato 13 si annuncia, già dal mattino, come una splendida giornata.
La passiamo gran parte a letto per riprenderci dalla terribile
impresa. Meno male che in alta quota, dicono, è difficile prendere
sonno: ho calcolato di aver dormito quasi 18 ore di seguito, con
solo le pause per mangiare! Al mattino, soprattutto, il panorama è
straordinario, uno dei migliori che l'alpinista possa trovare in
montagna: lo sguardo spazia su alcune delle vette più famose del
mondo, Cervino, Monviso, Gran Paradiso, Bianco, senza trascurare
l'affilatissima cresta del Lyskamm, lì a due passi. Nel tardo
pomeriggio cominciamo a montare il telescopio, compito tutt'altro
che facile a quell'altezza dove anche infilare una vite, per il
soggetto non acclimatato, richiede una concentrazione mentale fuori
dell'ordinario.
Finalmente,
alle 22.30 lo strumento è fuori, sul terrazzo di legno del rifugio.
Nonostante manchi ancora più di un'ora alla fine del crepuscolo, la
Via Lattea è già visibile. Si inizia con l'osservazione di Giove,
per verificare che il telescopio, a causa dei sobbalzi, non sia
scollimato. Sembra tutto a posto. Man mano che si fa buio la Via
Lattea emerge in tutta la sua gloria. Tuttavia il cielo non è
grandioso come pensavo: tra qui e le Tofane, a 3200
m, o il Lagazuoi, a 2750 m, non c'è una gran differenza. Eppure qui
di giorno il cielo sembra molto più blu. Forse che si sente già a
questa altezza l'effetto dell'ipossia sui bastoncelli, i recettori
retinici che presiedono alla visione in luce debole, evidenziato
nella spedizione di Serge Brunier all'Ojos del Salado nelle Ande a
partire dai 5200 m di altezza?
Uno sguardo
alla Hale-Bopp, già di luminosità inferiore alla sesta, rivela la
presenza di una coda corta, ma molto larga, esclusivamente di
polveri: le cose sembrano mettersi bene per il grande clou
della primavera prossima. Rinuncio a tentare di compiere
l'osservazione a occhio nudo, perché la cometa è in piena Via
Lattea. Cominciamo poi a saggiare qualche oggetto di profondo cielo.
Dapprima qualcuno alto sull'orizzonte come M 11 e M 13: sicuramente
notevoli, anche se non esplosivi. Poi rivolgiamo la nostra
attenzione a M 22: niente di eccezionale, dall'Aspromonte si vede
quasi meglio; poi le nebulose Laguna e Omega: buone sì, ma anche con
il filtro OIII non sono migliori che al Lagazuoi. Soltanto M 57, che
sta passando quasi allo zenit, mi sembra decisamente meglio che in
qualsiasi altro sito. Destano comunque stupore i grandi aloni che
segnalano le città di Milano e Torino, resi più evidenti dalla
diffusione delle nuvole basse che occupano la pianura.

L'autore accanto al telescopio.
Poi parto con
le foto, esclusivamente a grande campo perché ho un problema con il
motorino in declinazione: peccato perché, a differenza della sera
prima, c'è assenza completa di vento. D'altra parte non credo di
avere la lucidità e la pazienza necessarie, in queste condizioni,
per mettere accuratamente in stazione lo strumento, focheggiare,
cercare una stella di guida e inseguire per quindici o venti minuti.
Vorremmo
arrivare all'inizio del crepuscolo, ma alle due non riusciamo più a
resistere al freddo: la temperatura non è molto bassa, probabilmente
non si arriva neanche a sotto lo zero, ma le difficoltà di
termoregolazione in queste condizioni di debilitazione sono
ovviamente notevoli: forse, a causa della lunghissima esposizione al
sole del giorno prima, abbiamo anche un po' di febbre...
Il giorno dopo
riusciamo a compiere la lunga discesa fino a punta Indren in tempi
ragionevoli, circa quattro ore, ma le gambe rischiano spesso di
saltare, ormai sfibrate e piene di acido lattico, nel contrastare
peso e bilanciamento del carico. Più volte rischio di cadere,
compromettendo l'integrità delle ottiche: decido di tenere i ramponi
anche nelle roccette finali, compiendo miracoli di equilibrismo per
non cadere.
La
Via Lattea nell’Aquila
A casa,
sviluppando le dia, abbiamo una risposta sconsolante al perché il
cielo non è così limpido. Probabilmente il
laboratorio ci ha messo del suo, ma le immagini risultano tutte sovraesposte: quelle allo zenit solo leggermente, ma quelle vicino
all'orizzonte in maniera drammatica. Questo nonostante la lunghezza
della posa sia stata la stessa adottata in tutte le occasioni, anche
a quote molto più basse, proprio per non rischiare la
sovraesposizione (in Lagazuoi talvolta ho usato tempi anche del 40%
più lunghi). In particolare, si vede che la luminosità di fondo
sulle fotografie ha un colore giallo molto evidente, prodotto con
tutta chiarezza dalle lampade al sodio ad alta pressione delle due
grandi metropoli; questo colore infatti caratterizza anche le
riprese di Milano e Torino, effettuate con lo stesso tempo di posa
delle foto di profondo cielo. |